Corriere del Trentino – Domenica 6 Luglio 2025
Il conflitto israelo-palestinese, il Sait e le tifoserie ideologiche
L’editoriale di Enrico Franco, apparso su questo giornale venerdì 4 luglio, tocca con onestà il nodo più spinoso: il rischio che il conflitto israelo-palestinese diventi terreno di contrapposte tifoserie ideologiche, incapaci di vedere la complessità. Su questo terreno di verità non ci sono repliche: il furore ideologico non aiuta né la pace né la giustizia. Ma proprio per questo credo sia necessario chiarire che l’indignazione verso i crimini contro la popolazione civile palestinese non è frutto di fanatismo ideologico, e che la denuncia di un’occupazione e di un’offensiva militare sproporzionata non equivale a chiudere gli occhi davanti alla brutalità di Hamas. Non serve alimentare la retorica del «due pesi e due misure»: si può e si deve dire con la stessa chiarezza che Hamas è un’organizzazione terroristica, che il 7 ottobre ha pianificato un massacro di civili inermi e che non c’è alibi per la ferocia. Ma occorre anche ammettere che l’esercito israeliano, con l’assedio e la devastazione di Gaza, ha scatenato una punizione collettiva che la coscienza democratica non può accettare come semplice «legittima difesa». È questa sproporzione, centinaia di migliaia di vittime, ospedali rasi al suolo, bambini condannati alla fame, a muovere molte realtà, comprese organizzazioni cooperative e sindacali, a gesti di denuncia simbolica: non perché sia una panacea, ma perché il silenzio non diventi normalizzazione. Sostenere la popolazione palestinese con raccolte fondi o scelte commerciali di solidarietà non è necessariamente un atto di «furia ideologica», ma il tentativo di rompere l’assuefazione, di rifiutare l’idea che un popolo intero possa essere sacrificato sull’altare della vendetta. È un dato di fatto che in molti Pride europei si vedano accostate bandiere arcobaleno e bandiere palestinesi. Alcuni sottolineano la contraddizione di questa prossimità simbolica, ricordando che in molti territori l’omosessualità è ancora criminalizzata e perseguitata. È un elemento che merita di essere riconosciuto con onestà, senza ipocrisie e senza semplificazioni. Ciò non toglie però che la denuncia delle violazioni dei diritti umani e l’aspirazione alla dignità di ogni persona, in ogni contesto, siano istanze che non possono essere messe in contrapposizione tra loro. Nessuna causa di giustizia richiede di rinunciare alla propria identità o alla propria sensibilità. Le lotte per i diritti civili, comprese quelle della comunità LGBTQ+, nascono da una stessa radice etica: la convinzione che ogni vita meriti rispetto, che nessun potere possa giustificare la violenza e che la dignità non debba essere negata a nessuno, indipendentemente dal colore della bandiera sotto cui si nasce o si vive. È legittimo e doveroso interrogarsi sulle contraddizioni, ma nessuna contraddizione deve diventare un alibi per l’indifferenza. A chi oggi invoca la neutralità vorrei dire che rimanere fermi davanti a un conflitto che ha ridotto Gaza in un cimitero a cielo aperto non è prudenza: è rimozione della coscienza. Come abbiamo scritto nel nostro comunicato unitario, «la neutralità di fronte a questi crimini è una forma di complicità». Non serve retorica, serve il coraggio di riconoscere le responsabilità di tutte le parti, comprese quelle di un governo israeliano che ha scelto la strada di una guerra senza limiti. Non chiediamo di sposare un partito. Non chiediamo di rinunciare alla complessità. Ma chiediamo a chi si proclama equidistante di dire con altrettanta franchezza che la vita di un bambino palestinese non vale meno di quella di un bambino israeliano. Che la solidarietà non è una questione di geografia o di identità, ma di umanità. Nessuno è innocente in questa tragedia. Ma c’è un confine che la coscienza civile non può oltrepassare: la rinuncia a guardare in faccia il dolore e a chiamarlo per nome. E forse, se oggi riusciamo a discutere con prospettive diverse e a confrontarci con onestà, è anche perché abbiamo avuto il coraggio di rompere il silenzio con quella presa di posizione pubblica sui giornali.
Stefano Picchetti
Segretario Regionale UILTuCS
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