27 luglio 2020 – Trentino

Costretti al lavoro in cassa integrazione Ferma condanna di Unione e Artigiani

Un fenomeno sommerso. A far scoppiare il caso un impiegato del terziario, obbligato dalla sua azienda a prestare servizio da casa.
Una situazione confermata dai sindacati, ma che le associazioni di categoria ignoravano: «Nessuno ci ha avvisato, ma bisogna intervenire»

TRENTO. Se si tratti della punta dell’iceberg di un fenomeno diffuso ma che stenta ad emergere per la paura delle conseguenze di una denuncia, prima fra tutte la perdita del lavoro, o di situazioni invece marginali, è difficile da dirsi. Quella dei dipendenti messi in cassa integrazione ma obbligati a lavorare lo stesso da casa, in quello smart-working che il Covid ha “incentivato” in misura massiva, è cosa che preoccupa molto i sindacati, come il “Trentino” ha raccontato ieri riportando la testimonianza anonima di un lavoratore sfruttato (il settore è quello del terziario) e le dichiarazioni di Andrea Grosselli, segretario della Cgil, secondo cui la situazione non solo esiste ma è diffusa soprattutto nelle piccole aziende, e di Walter Largher, della Uil-Tucs, che ha ricevuto molte segnalazioni preoccupate da parte di agenti di commercio e rappresentanti costretti a lavorare anche nei giorni di “cassa”.
Chi sembra non averne avuto sentore sono le associazioni di categoria, che tuttavia sono per natura meno adatte -rispetto ai sindacati -a raccogliere denunce e sfoghi da parte dei lavoratori. Associazioni che comunque stigmatizzano il fenomeno con decisione.
Lo fa l’Associazione artigiani e piccole imprese, per voce del suo presidente, Marco Segatta, che abbiamo consultato ieri: «Sinceramente non sono mai venuto a conoscenza di situazioni del genere nel mondo dell’artigianato -afferma -ma posso censurare e condannare in modo totale questo comportamento. Prima perché è un reato e poi, di conseguenza, una concorrenza sleale nei confronti di chi opera in maniera corretta».
Gli Artigiani -continua Segatta -si sono mossi per mettere un freno a malcostumi (e reati) ben più noti: «Noi combattiamo in modo energico il lavoro in nero. Se qualcuno ci contatta, ci mettiamo in moto per denunciare. A noi interessa la legalità e il rispetto delle norme. Per di più chi fa queste cose è come se avesse dei ricavi ma senza i costi. Spero tanto che siano casi molto limitati, che possano essere messi alla luce e nei confronti dei quali siano presi dei provvedimenti».
A ostacolare l’emersione del fenomeno -si diceva -c’è soprattutto la reticenza derivata dal timore, per chi ne è vittima, di perdere il lavoro. «Penso che la maggior parte degli imprenditori lavora in modo corretto, come accade in ogni settore. L’associazione comunque è aperta…». Un invito a rivolgervi alle associazioni per denunciare? «Noi non siamo il sindacato», precisa Segatta, sottolineando invece gli sforzi della categoria per ripartire dopo lo stop imposto dalla pandemia: «Il mondo dell’artigianato ha reagito bene al lockdown, usando gli strumenti che c’erano, sia nazionali che provinciali, per il sostegno all’impresa. Ora sembra che arrivino anche i soldi per rifinanziare la cassa integrazione. Si sta parlando di pagare quella di aprile: siamo in luglio e c’è tanto da lavorare, ma speriamo che con gli aiuti europei si vada in questa direzione. Una cosa però mi preme dire: quello che interessa ai membri della nostra categoria è avere la possibilità di lavorare. E ci stiamo riuscendo, tranne nel caso del settore del trasporto delle persone, che soffre ancora per il venir meno degli utenti della scuola e del turismo».
Analoga la posizione di Gianni Bort, presidente dell’Unione commercio e attività di servizio: «Bisogna dire che questa cassa integrazione si può presta un po’ a situazioni di questo tipo, ma credo che siano fenomeni alquanto ridotti. Dire che non possa succedere sarebbe mentire a se stessi, dire che è diffuso sarebbe ingiusto invece nei confronti delle imprese. Dopo di che ci sono aziende corrette e altre no, come accade dovunque».
Fattispecie di sfruttamento di questo genere sono davvero difficili da far venire a galla. Lo confermano le parole di Bort: «Noi non siamo venuti a conoscenza di niente: siamo un’associazione di categoria, diversa dal sindacato che può avere qualche segnalazione. Ma ricondurrei il fenomeno a poca cosa… Certo, entriamo nel campo dell’oscurità e non mi sento di dire che non accada nulla. Ma francamente è la prima che sento».
A fare la differenza dovrebbe anche essere il tipo di occupazione. Bort avanza qualche perplessità sul caso dell’anonimo che ha raccontato la sua storia al giornale: «Se parliamo dell’informatica, dove c’è una forte ricerca di personale, se uno lascia l’azienda ne trova subito un’altra. Quasi come i cuochi per gli alberghi che nel mio ambito ci soffiamo a vicenda. Comunque si tratta di una cosa deplorevole. È giusto che emerga, anche perché c’è una questione di concorrenza sleale».

Scarica il pdf: Terziario ART 270720 (1)