04 marzo 2022 – l’Adige

Quadruplicati i laureati trasferiti all’estero. I sindacati: «Mercato del lavoro poco attrattivo». Le imprese: «Percorsi scolastici da riprogettare»

In dieci anni il numero di laureati che ogni anno lasciano il Trentino per andare all’estero è quadruplicato. Soprattutto per i più giovani, un’apertura al mondo è spesso auspicabile, così come sarebbe auspicabile anche l’attrazione di persone in grado di portare idee nuove sul territorio. Però questo accade in una fase in cui spesso le aziende richiamano l’esigenza di avere a disposizione addetti sempre più qualificati. Insomma, anche la nostra provincia sta facendo i conti con quelli che vengono definiti “cervelli in fuga”.I dati. Analizzando l’ultimo decennio, i dati Istat dicono che nel 2011 i laureati trentini che sceglievano di trasferirsi all’estero erano 52. Un dato tutto sommato ridotto in percentuale, se si pensa che le persone che in quell’anno hanno abbandonato il Trentino per andare all’estero erano state complessivamente 3.520. Progressivamente, le cose sono cambiate e, soprattutto a partire dal 2015, chi ha in tasca una laurea ha cominciato a guardare oltreconfine. In quell’anno gli espatri dei laureati sono infatti diventati 98, per salire poi a 110 l’anno seguente, a 133 nel 2017, a 149 nel 2018, addirittura a 218 nel 2019. Solo il dilagare della pandemia nel 2020 ha frenato questo trend, con 161 persone che avevano concluso gli studi universitari che hanno scelto di trasferirsi fuori dall’Italia. Tutto ciò è accaduto in controtendenza rispetto al totale dei cittadini che hanno deciso di espatriare, che sono scesi a 3.173 nel 2019 e 2.704 nel 2020. Le imprese.Roberto Simoni, attuale presidente del Coordinamento imprenditori, legge due tipi di problemi che riguardano comunque il nodo dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro. «Per quanto riguarda i laureati e le figure ad alta qualificazione – dice precisando di offrire un’analisi a titolo personale – occorre considerare che spesso la chiusura del percorso universitario non rappresenta la fine del percorso formativo. Si aprono le porte a corsi post laurea o a tirocini nelle aziende che spesso in Italia sono meno remunerati che altrove». Per i giovani non è sempre interessante una prospettiva immediata a tempo indeterminato, ma piuttosto il completamento del proprio percorso di formazione. «E a quell’età, arrivati a 24-27 anni – prosegue Simoni – è giusto che si possa pensare all’indipendenza economica come è possibile che si tratti dell’età in cui si mettono radici». Il rischio, insomma, è che se un giovane sceglie la via che porta all’estero, il rientro non sia scontato. «Ma noi – precisa Simoni – abbiamo bisogno di queste figure e dobbiamo trovare una strada per fare restare i nostri talenti, dobbiamo restare attrattivi». Questa strada, secondo il presidente del Coordinamento imprenditori, porta anche al problema principale, che è quello di lavorare fin dalla scuola per creare le figure che servono alle aziende, «ma che devono rappresentare anche un approdo in grado di dare soddisfazione». L’appello di Simoni è quindi di mettere in collegamento pubblico, privato, scuola e parti sociali per cercare di favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Il sindacato.A giudizio di Cgil, Cisl e Uil, in un mercato del lavoro europeo è normale che i giovani cerchino occasioni di realizzazione anche fuori dai confini provinciali. «E sarebbe grave se così non fosse. Il tema non è tanto frenare questa tendenza, quanto comprendere se il Trentino riesce ad attrarre talenti da altre regioni e altri Paesi. Se così non è, e abbiamo ragionevoli ragioni per pensare che non lo sia, esiste un problema di attrattività del nostro mercato del lavoro».Secondo il sindacato, è questa la chiave di lettura da dare al forte incremento della mobilità dei laureati trentini. «Un fenomeno – sostengono Maurizio Zabbeni, Lorenzo Pomini e Gianni Tomasi, responsabili politiche del lavoro rispettivamente per Cgil Cisl Uil – che deve interrogarci anche perché strettamente connesso ad un altro problema emerso con chiarezza durante le sessioni degli Stati generali del lavoro: il marcato mismatch tra titolo di studio posseduto e attrattività del nostro mercato del lavoro». All’origine di questa situazione, a giudizio dei rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil, «c’è la bassa produttività del nostro tessuto produttivo, retribuzioni al di sotto della media delle regioni vicine e quindi qualità del lavoro non all’altezza delle aspettative professionali di chi possiede titoli di studio elevati». «La conferma arriva dai dati – aggiungono Zabbeni, Pomini e Tomasi – i giovani in Trentino nei due terzi dei casi sono occupati in forme contrattuali precarie, la retribuzione lorda oraria delle posizioni lavorative dipendenti per i 15-29enni ascrive alla provincia di Trento il peggior risultato tra i territori, e le stesse imprese del Trentino, secondo i dati Excelsior, cercano meno dei territori più avanzati giovani con high-skill». Per questa ragione, Cgil, Cisl e Uil ritengono sia essenziale rimettere in campo investimenti per innovare il tessuto produttivo e accrescerne la produttività. «Allo stesso tempo è fondamentale che tutte le parti sociali, a cominciare dalle imprese, facciano la loro parte per innalzare la qualità del lavoro e le retribuzioni».

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