Il T – 08 luglio 2023

Trappola part time. Diventa sfruttamento se è troppo flessibile

Il Coordinamento giovanile Omega (Uil) raccoglie le storie di giovani in contesti di impiego critici. L’inizio traumatico di Annalisa nel mondo del lavoro

«Una persona crede di accettare un part-time e in realtà lega la sua vita a quel posto». Questo il riassunto di Antonio Trifogli, Portavoce del progetto Omega – il coordinamento di lavoratori sotto i 30 anni di Uiltucs – sulla situazione esasperante vissuta da moltissimi giovani lavoratori nel settore della ristorazione e del commercio. Gli esempi sono molti e Omega ha deciso di raccogliere le testimonianze per aiutare altri giovani a farsi avanti in casi di situazioni lavorative anomale.
Una di queste storie racconta della disavventura di Annalisa (il nome è di fantasia), 22 anni, una delle tante ragazze ad aver avuto una primo contatto «traumatico» con il mondo del lavoro. Eppure l’inizio sembrava promettere bene: un negozio in centro storico a Trento, appartenente ad una grande catena, le aveva offerto un contratto part-time di 20 ore con una paga base di 900 euro. Ma il diavolo sta nei dettagli e questi talvolta hanno la forma di «clausule di flessibilità». Ad Annalisa veniva richiesta la disponibilità, «in caso di necessità», di arrivare a 40 ore (raggiungendo un salario massimo di 1.300 euro), un’opzione cui l’azienda avrebbe puntualmente fatto ricorso, trasformandola in un orario settimanale, su base costante, di almeno 35 ore.
Fin dal primo giorno l’impressione non era stata delle migliori: «Quando sono arrivata molti dipendenti erano andati via e non erano stati sostituiti. E anche quando sono stati sostituiti le ore sono comunque rimaste tante». Un cambio del manager del negozio ha poi aggiunto criticità alla situazione: «Gli orari erano estremamente imprecisi. Il preavviso di 48 ore, previsto dal contratto, non veniva mai rispettato. Succedeva che il giorno stesso ti dicevano di restare ulteriori 5 ore. Quindi arrivavo pensando di uscire alle 14 e invece restavo fino a sera». Risultato? La giornata della ragazza era completamente in mano all’azienda: «Non potevo organizzare il resto della mia vita». Un forte disagio condiviso con le colleghe e i colleghi che spesso decidevano di scappare «dopo tre, massimo sei mesi», con il conseguente frequente ricambio nel personale del negozio. Una situazione che alcune amiche di Annalisa lamentavano anche nei negozi della concorrenza.
Il senso di impotenza in questa situazione era poi alimentato dal rapporto con la responsabile con cui «era molto difficile rapportarsi». Difficile dire di no, ancora più difficile avanzare legittime richieste: «Una mia collega appena assunta era stata messa a sistemare il magazzino, dove c’erano muffa e tanti prodotti chimici. Non era fra le sue mansioni e le condizioni del luogo erano tali che le causarono un forte eritema. Quando chiese un permesso per andare dal medico le fu negato». Annalisa ha poi deciso di lasciare il posto con contratto per accettare un lavoro a chiamata: «Mi sono fatta valere e quando hanno visto che mi do da fare mi hanno dato un contratto da 30 ore. Qui la situazione è completamente diversa perché il negozio ha un’etica ferrea».
«Purtroppo la flessibilità è diventata uno strumento in mano alle aziende per gestire a piacimento il personale – spiega Trifogli – raccogliendo queste storie, puntiamo a far sì che chi si trova in queste situazioni sia incoraggiato a parlarne».

Scarica il pdf: IL T Part Time ART 080723